d) La città di Dickens
Lo esaltano, invece, le rovine classiche:
«E' lo spettacolo più impressionante, più maestoso, più solenne, più grandioso, più importante e più triste che mente umana possa concepire» (335)
Nei confronti del "centro storico", l'atteggiamento di Dickens è il medesimo che a Genova - una sola descrizione le riassume tutte:
«Nella città, le vie strette, prive di marciapiedi e costruite in ogni angolo buio da mucchi di spazzatura, presentano a causa delle loro dimensioni ridotte, del sudiciume che le ingombra e della oscurità in cui sono avvolte, un contrasto assai vivo con le ampie piazze che si stendono davanti a qualche chiesa superba, in mezzo alle quali qualche obelisco coperto di geroglifici, portato a Roma dall'Egitto, al tempo degli imperatori, sembra che guardi stupito quella scena per lui esotica (...) La piccola città di case miserabili, tutta circondata da mura e chiusa da porte sbarrate, è il quartiere dove ogni notte vengon rinchiusi gli ebrei, allorchè battono le otto. E' un luogo meschino, densamente popolato e pieno di odori sgradevoli; ma gli abitanti sono industriosi e fanno fior di quattrini. Di giorno, mentre uno s'inoltra in quelle viuzze, gli abitanti di esse son tutti affaccendati, preferibilmente sul lastricato, anzichè nelle botteghe buie e fetide, a pulire abiti vecchi e a contrattare affari» (336)
Del resto, per quanto riguarda un'altra delle ideologie-chiave del Romanticismo, anche Dickens è convinto che gli attuali siano tempi degeneri - e che lo siano anche perchè s'è perduto il piacere di certe produzioni e di certe tecniche di tradizione nobilissima: a Cremona, per esempio, non si costruiscono più i celebri violini. (337)
Eppure, malgrado questo complesso di evidentissime intonazioni romantiche alla base dello sguardo urbano di Dickens, è come se percorressero sotterraneamente questo sguardo anche costanti reminescenze settecentesche (e precisamente molto più settecentesche che illuministiche). Si vuol dire che un'eventuale "città di Dickens (quale quella in cui siano in traccia, e che potesse suonare come alternativa alla città attuale, e cioè soprattutto alla città industriale), sembrerebbe configurarsi come una tipica città settecentesca, anche sotto l'aspetto di costruito che si oppone alla campagna - c'è pochissimo Rousseau, insomma, in fondo a Dickens.
In questo senso, abbiamo già visto qualche testimonianza eloquente. Per esempio, come Dickens apprezzi una Livorno, e quali accensioni mentali essa provochi in lui; come sia lontanissimo dal comprendere il sistema senese di Piazza del Campo; come, infine, non possa non lasciare complessivamente perplessi il suo stesso modo di esprimersi sul gotico (338) malgrado il fatto che la chiesa gotica gli paia un esempio di spirito religioso molto più che quella barocca - non era del resto Montesquieu a sostenere, fra gli altri, che il gotico si attaglia soprattutto alle chiese?
Ed era Sade che, a San Pietro, si sentiva condotto verso emozioni più teatrali che spirituali:
«La prima cosa che vidi fu la chiesa di San Pietro. La facciata mi sembrò più teatrale che imponente, e mi sorprese più di quanto avessi immaginato. Tuttavia la vastità di questo edificio è incredibile e la perfezione delle proporzioni ne rende accettabile la grandezza. Il portico è estremamente bello... Certo è che quando le tre porte sono chiuse bisogna sapere che al di là vi è una chiesa. Nulla annuncia l'ingresso di un tempio; potrebbe piuttosto essere quello di una sala da spettacolo, e certamente l'architetto che costruì quello di Lione si ricordò del portico di San Pietro» (339)
Ma settecentesche sono, in Dickens, anche, magari, la sottile ironia sulla campagna francese
(340), o la stessa descrizione della papale Avignone (le cui "mura merlate hanno il colore chiaro di un pasticcio poco cotto"), con i relativi, terribili ricordi legati alle segrete dell'inquisizione (341).
Ma un modo preciso di valutare gli oggetti architettonici, un modo che conosciamo bene e che nemmeno esso ci pare, a rigore, dell'Ottocento, sopravvive anche nel più superficiale "colpo d'occhio" dello scrittore, e in ciò che di esso affiora alla memoria nell'atto in cui la pagina si forma: le case di Marsiglia sono costruite irregolarmente, sono anche disposte nel modo più irregolare - a Genova manca in assoluto qualsiasi somiglianza fra abitazione e abitazione, le via sono strette e le case altissime, dipinte, in più, con ogni specie di colori: insomma, infinite varietà di forme irregolari - finchè Dickens arriva ad un'affermazione ancora più trasparente:
«Le loro abitazioni (dei geneovesi)
son così ristrette e addossate l'una all'altra che, se quelle parti della città fossero state distrutte dal Massena, al tempo del terribile assedio, questo avrebbe prodotto almeno un beneficio fra tanti danni» (342)
Quando a Roma, anche qui il Corso per esempio, è guardato con un occhio tutto particolare, che ci ricorda comunque il secolo precedente:
«Il Corso è una via lunga un miglio, nella quale ci sono botteghe, palazzi e abitazioni private, e che, in certi punti, taglia ampie piazze. quasi in ogni casa - non ad un piano solo, ma spesso ad una finestra qualunque di ciascuno piano - ci sono verande e balconi di ogni forma e di ogni dimensione, fabbricati generalmente con tanto poco rispetto all'ordine e alla simmetria, che se per anni e anni e per stagioni di seguito fossero piovuti i balconi, avessero grandinato e nevicato e fossero stati trasportati dal vento, essi sarebbero stati disposti in modo meno disordinato» (343)
Nè a rigore è del tutto romantica, ma fa piuttosto pensare a discorsi tipici delle estetiche illuministiche, questa medesima, acutissiam affermazione sui musei e il loro pubblico:
«Finchè qualsiasi scultura antica dissotterrata trova posto in una galleria, solo perchè è antica, e non per i suoi pregi intrinseci, e trova centinaia di ammiratori, solo perchè è lì, e non per altra ragione, non mancheranno mai oggetti d'arte che, pur non essendo notevoli agli occhi di chi li guarda senza preconcetti, divengono ammirabili, quando siano osservati, per dir così, attraverso gli occhiali del ciarlatano; occhiali che, come si sa, non costano assolutamente nulla e tuttavia stabiliscono la reputazione di critico e di intenditore a favore di qualsiasi persona che se li mette sul naso» (344)
Che, nel suo nucleo fondamentale, è un ragionamento di respiro tale da arrivare fino alle provocazioni novecentesche di Duchamp.
Così, non è affatto romantica la nota dickensiana sulle Paludi Pontine. Dickens vi è certo più vicino alla tradizione descrittiva settecentesca e illuministica che a quella di Goethe e Humboldt:
«Il giorno dopo ci troviamo fra le Paludi Pontine, le quali sono tediosamente piane e deserte; e son tutte coperte di cespugli e di alberelli, e imbevute di acqua stagnante; ma attraverso ad esse è stata costruita una bella strada, fiancheggiata da ciascun lato da una fila interminabile di alberi. Di tanto in tanto passiamo vicino a qualche fabbricato solitario, che serve da corpo di guardia, o a qualche tugurio abbandonato, le aprture del quale sono state murate. Alcuni mandriani si attardano sulle rive del corso d'acqua che scorre presso la strada, e talora un battello dal fondo piatto, rimorchiato da un uomo, viene lungo di esso alla nostra volta, increspando svogliatamente la superficie liquida. Talora passa un uomo a cavallo, armato d'un lungo fucile che tiene trasversalmente sulla sella, davanti a sè, e accompagnato da cani di aspetto feroce; ma, eccetto questi esseri, non c'è niente altro che si muova, se non il vento e le ombre, finchè non arriviamo in vista di Terracina» (345)
Se da queste Paludi dickensiane, insomma, è certo scomparsa qualsiasi forma di quell'indignazione civile cui esse apparivano sistematicamente associate in tutta una tradizione settecentesca, è altrettanto certo, però, ch'esse non sono più nemmeno quelle del primo Romanticismo.
E così a Napoli, dove Goethe trovava nella città dei "lazzaroni", del sole e del mare un'alternativa di tipo rousseauviano alle "città del Nord" ormai meccanizzate fino nei sentimenti,
(346) Dickens, ancora una volta, recupera una polemica che, al contrario, è tipica di tutto il Settecento e dell'Illuminismo:
«Ma, pur amando le vedute e gli spettacoli pittoreschi e andandone in cerca, non dimentichiamo, non cerchiamo troppo di nascondere la miserabile depravazione, la degradazione e la miseria, alle quali va unita inseparabilmente la giai vita napoletana! Non sta bene trovare Saint Giles così ripugnante e Porta Capuana così attraente. Un paio di gambe nude e una sciarpa rossa stracciata non fanno tutta la differenza fra ciò che è piacevole e ciò che è rozzo ed odioso. Pur dipingendo e celebrando in versi per sempre, se così vi piace, le bellezze di questo bellissimo e amenissimo lembo di terra, cerchiamo come nostro dovere di accoppiare un nuovo senso di ciò che è pittoresco, con qualche pur debole riconoscimento del destino e della perfettibilità dell'uomo, nel qual destino e nella quale perfettibilità c'è da aver più fiducia, credo, fra i ghiacci e la neve del Polo Nord che sotto il sole e in mezzo alle bellezze naturali di Napoli» (347)
Se avessimo voluta un'ulteriore conferma del "settecentismo" di Dickens, non credo avremmo potuto trovarne una migliore di queste considerazioni napolatane: e la filosofia dello scrittore, qui, è proprio l'esatto risvolto del suo gusto.
In conclusione. Se di una "città ideale" di Dickens è lecito parlare, questa città non è nè una metropoli nè una piccola città, ma è una città di media grandezza, non spopolata ma nemmeno troppo movimentata, il cui costruito è civilmente ordinato, senza eccentricità nè in alto nè in basso, e soprattutto, senza contaminazioni rurali. Il "settecentismo" estetico di Dickens coincide, come ben è stato detto
(348), con i tipici ideali del piccolo borghese.
(335) CHARLES DICKENS, op. cit., vol. II, p.74.
(336) Ibid.
(337) Ibid. vol. I, p.76.
(338) Ibid. vol. I, p.154.
(339) SADE, op. cit., p.170.
(340) CHARLES DICKENS, op. cit., p.25.
(341) Ibid. pp.37 e ss.
(342) Ibid. p.76.
(343) Ibid. vol. II, p.34.
(344) Ibid. p.67.
(345) Ibid. p.93.
(346) FRANCESCO IENGO: Scrittori e metropoli, p.58.
(347) CHARLES DICKENS, op. cit., vol. II, pp.99-100.
(348) E'GYORGY LUKACS (op. cit. p.332) a parlare, a proposito di Dickens, di "umanismo e idealismo radicale e piccolo-borghese".
Theorèin - Aprile 2008